venerdì 10 febbraio 2012

Dal cassetto dimenticato

Ho pensato che potevo rendere più corposo il blog. Poi mi sono chiesto: e che ci metto?
Beh, scrivo no?
Ho deciso di pescare nel mio "cassetto dimenticato" alcuni vecchi racconti.
Anno 1997. Buona annata. Si spera.
Oggi, ben quindici anni dopo, li pubblico sul blog nella speranza possano essere letti da più persone possibili.
Buona lettura!

IL BABAU

Emily aveva paura. Molta paura. Paura del buio, di quello che ne usciva. Aveva paura del Babau. Emily, una bambina di sei anni, lo aveva visto molte volte, troppe, pensava. Non passava notte che, da quella parete buia, da quel muro di nulla, uscisse quella figura scura, minacciosa. Il terrore cresceva in lei quando stava per premere l’interruttore della piccola lampada che aveva vicino al letto, sul comodino. Tutto iniziava da lì. Tutto di un tratto la sua cameretta dalle pareti rosa che ospitava un’orda infinita di orsacchiotti di peluche perdeva quei colori rassicuranti. Le porte svanivano nel nulla, anche la finestra non sembrava più tale, ma si trasformava come in una macchia bianca. Era allora che Emily sprofondava nelle lenzuola, cercandovi rifugio. La piccola pensava che così poteva sfuggirgli, ragionava sul fatto che il Babau non l’avrebbe vista e che se ne sarebbe andato, che non l’ avrebbe toccata, ancora una volta, con quelle zampe. Magari il mostro non poteva vedere, magari raggiungeva i bambini innocenti attraverso l’olfatto e così, coperta dalle lenzuola, il suo odore non poteva arrivare alle narici del mostro. Ma si sbagliava. Il Babau non lo si inganna: l’aveva già presa un paio di volte da sotto le lenzuola. Compariva così, all’improvviso, dal nulla: si apriva un varco, un fascio di luce che l’accecava, e da esso usciva lui, il Babau.

Emily non voleva chiudere la luce della sua piccola lampada, ma era tardi e doveva dormire, le diceva la mamma. Emily voleva molto bene alla sua mamma. L’unica cosa che non riusciva a capire era perché se ne andava tutte le notti, vestita con un camice come quello che usava lei all’asilo, con l’unica variante di una croce rossa sul petto. Non capiva perché le mamme di tutte le sue compagne di scuola lavoravano di giorno e la sua no. La mamma le diceva che era questione di turni, ma Emily non voleva accettare questa scomoda faccenda dei turni. Lei era in pericolo, tutte le santi notti, e, per una stupida e formale questione di turni, perdeva la sua unica guardia del corpo. Non era giusto. Fatto sta che la mamma se ne stava andando e lei stava per rimanere sola con il terrore di trovarsi di nuovo di fronte al Babau.
Non aveva raccontato questa storia a nessuno, neanche alle sue amiche dell’asilo. Per una semplice ragione: aveva paura di essere presa in giro. “Emily ha paura del Babau”, “Il Babau non esiste”, “Emily fifona”: non poteva sopportare l’idea di questi sberleffi. Perché Lui andava solo da lei, non dalle sue compagne. Ma non poteva neanche dimostrarlo, perché non l’aveva mai visto in volto, aveva sempre visto una figura scura, niente di più: non poteva neanche descriverglielo. E poi non voleva dire a nessuno quello che subiva. Quello che Lui le faceva.
Doveva chiudere la luce. Provare a dormire. Sapeva che non ci sarebbe riuscita. Sapeva che sarebbe arrivato. Ma doveva farsene una ragione e, da un po’ di tempo, ci stava provando. Sapeva - o meglio pensava - che poteva ucciderlo.
Gli occhi si facevano pesanti e le palpebre sempre più spesso calavano per coprire le pupille. Non poteva resistere ancora a lungo. E lo sapeva. Prese in mano Titti, il suo pupazzo preferito, lo strinse forte a sé, allungando la manina per raggiungere l’interruttore della luce che scomparve lasciando spazio al buio. Poco dopo, si addormentò.
Il respiro. L’odore. Era arrivato. Emily socchiuse gli occhi: la figura nera avanzava lentamente verso di lei. Era sbucato dalla solita chiazza di luce. Emily stringeva Titti forte, sempre più forte, perché cercava protezione. Ma anche Titti era impotente. Il Babau avanzava: ormai era al letto. Emily strizzò gli occhi più che poteva, ma non reagì, non si mosse e non provò ad urlare. La zampa del mostro non le stava coprendo la bocca come faceva di solito quando lei tentava di gridare e di liberarsi. Le stava togliendo di dosso le lenzuola. Ormai sentiva la pelle bagnata del Babau a contatto con la sua. Sentiva il suo sudore, il suo odore, il suo respiro. La sua zampa che si infilava nelle mutandine. Emily non opponeva resistenza, ma allungava lentamente la mano verso il comodino. La luce, pensava, la luce l’avrebbe ucciso. La mano era arrivata all’interruttore. Stava per scacciare per sempre dalla sua vita il Babau. Schiacciò. La luce comparve all’improvviso illuminando l’intera stanza. “Papà”, disse.

1 commento:

  1. Mi ricordo questo tuo racconto: quella parolina alla fine tra le virgolette smonta l'idea di Babau che ognuno ha e trasporta il mostro nella vita reale...

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